Il Palazzo Marchesale

Genealogia marchesale e galleria degli stemmi

Il Palazzo Marchesale, all’origine doveva essere sicuramente una costruzione feudale fortificata, utilizzata dai Sanseverino di passaggio nei loro possedimenti. Tuttavia gli eventi rilevanti avvenuti a Castelluccio e legati a questa antica famiglia principesca verosimilmente dovettero verificarsi in questa storica sede, come il matrimonio forse celebrato nell’attigua cappella, purtroppo non più esistente, dal Vescovo di Cassano Giovan Francesco Brusato, il 7 giugno 1464 tra Barnaba Sanseverino Signore di Castelluccio e Luisa Sanseverino contessa di Lauria, e nel 1551 la firma degli “Statuti di Laino”, presentati a Venceslao Sanseverino “…in Burgo Castellucii”. Tale palazzo seguì le sorti del feudo e dopo vari passaggi giunse ai Pescara Di Diano. Questi ultimi, dalla fine del ‘500, lo modificarono in diverse fasi e lo ampliarono, aggregandovi l’edificio preesistente e la cappella, intitolata a S.Domenico di Guzmàn ed aperta anche al pubblico culto (molti anni dopo anche il giardino adiacente fu indicato con questo nome). I nuovi proprietari lo adeguarono alle esigenze di una presenza continua e non più sporadica ed occasionale nella vita cittadina del feudo, appropriato al loro prestigio sociale e confacente al lustro degli eredi di una celebre stirpe. Divenne quindi il centro e l’immagine stessa del potere, raggiungendo le considerevoli dimensioni e l’imponente mole tuttora chiaramente visibili. Sulla volta dell’androne dell’ingresso originario, sono affrescati gli stemmi, seguiti da altri emblemi araldici ed iscrizioni in latino, del nuovo signore, Camillo Pescara, e di suo figlio Cesare e delle loro consorti – discendenti del “miles Riccardus De Diano”- 1155 – che diedero origine al casato dei Marchesi di Castelluccio, Baroni di Agromonte e Signori di Trecchina (questa passò poi ai Vitale di Tortora, forse quale bene dotale per il matrimonio di Giovanna Pescara con il duca Alessandro, avvenuto a Castelluccio il 25 dic.1734). Sono chiare, pertanto, anche le armi dei Della Porta – marchesi di Episcopia, dei D’Afflitto e dei De Rogerio, che si confermano sullo stemma che sormonta il portale litico della fine del ‘500/inizi del ‘600. Nella seconda metà del Settecento Vincenzo Antonio Pescara (1731-1809) – VI Marchese di Castelluccio – per le sue cariche militari, soggiornava per lunghi periodi a Napoli, lasciando l’amministrazione dei suoi beni a Don Francesco Saverio Taranto. Negli anni 1806-7 a Castelluccio vi fu l’occupazione militare francese e i soldati presero possesso del Convento Francescano e del Palazzo Marchesale: si immagina quali furono le conseguenze. Non sappiamo se vi fu un accordo con i proprietari, come non si conoscono i motivi che indussero i Taranto, nei primi dell’Ottocento, a muovere verso il sunnominato – ultimo legittimo feudatario – un’azione legale per cui questi dovette cedere loro tutta la parte del palazzo che costituiva l’ala Ovest, esclusi i corrispondenti loggiati sul cortile, e una buona porzione dei giardini sottostanti. Durante il Decennio Napoleonico, il 1° agosto 1806, fu emanata la legge sull’eversione feudale, con la conseguente abolizione dei privilegi e del diritto di primogenitura. Dopo la morte di Vincenzo Antonio, avvenuta nel 1809, la gran parte del palazzo di cui era ancora proprietario fu divisa, in parti più o meno uguali, tra i due figli maschi: Carlo Francesco (1754/1820) – VII Marchese di Castelluccio – primogenito ed erede del titolo, e Giuseppe (1770/1853), Cavaliere Gerosolimitano. Al primogenito toccò la metà del palazzo, che comprendeva una piccola parte della facciata principale e tutta l’ala Nord, prospiciente lo slargo di via Roma, detto “la piazza”, con corrispondenti parti affacciate sul cortile. Al figlio cadetto fu destinata la ripartizione detta “a mezzogiorno”, cioè le due ali Est (in parte ) e Sud, che comprendeva alcune sale rilevanti del piano nobile – come la galleria, grande porzione della facciata principale e la cappella di S.Domenico con annesso giardinetto omonimo. A tutto questo si univa il cortile con l’androne, la gradinata con il susseguente atrio d’ingresso e i corrispondenti sovrapposti loggiati, di cui quello superiore, con gli stemmi. Poiché la divisione includeva la rinomata sala di S.Onofrio, che prendeva il nome dal contiguo oratorio interno al palazzo, fu chiamata “Palazzo S.Onofrio”.Gli altri proprietari avevano sul cortile il solo diritto di passaggio. Entrambi i fratelli vi abitarono soltanto sporadicamente. Carlo Francesco dimorava a Napoli con la sua famiglia, il cavaliere Giuseppe, per la sua carriera militare, viveva tra Napoli, Roma e Ronciglione, nel Viterbese. Palazzo S.Onofrio fu affidato ad un custode. La legge eversiva della feudalità riconosceva ai feudatari una parte dei loro precedenti diritti, tuttavia si dovè procedere alla ripartizione delle terre, demaniali e feudali, con l’assegnazione delle stesse. In Basilicata fu istituita una Commissione Feudale, con un commissario ripartitore, che si riuniva a Lagonegro presso l’Intendenza di Basilicata e a volte nel Convento Francescano di Castelluccio Inferiore. Negli anni dal 1808 al 1813 vi furono cinque sentenze in merito al contenzioso tra l’ex feudatario – Marchese Carlo Francesco – con i due comuni di Castelluccio e il comune di Latronico (per il feudo di Agromonte). Il Marchese fu sempre rappresentato dall’amministratore Taranto. Carlo Francesco contrasse, a Napoli e a Castelluccio, grossi debiti e ai creditori di Castelluccio furono impegnate molte stanze della sua ripartizione del palazzo, con tutto il loro contenuto e non furono più riscattate. Infine, nel 1815 fu venduta “Vigna della Corte”. Stessa sorte toccò, dopo la sua morte, alle terre dell’ex feudo di Agromonte, occupate dai coloni, dopo altre liti giudiziarie tra la vedova e il cognato Giuseppe (oggi, parte di quel vasto territorio viene detto, per “damnatio memoriae”, “Peschiera”). Nel 1818, un figlio di Don Francesco Saverio, Luigi Antonio (1793/1849), medico come suo padre, sposò la figliastra di Carlo Francesco, Maria Giuseppa Amalfitani. La coppia scelse, come residenza coniugale, la parte del palazzo espropriata al defunto marchese Vincenzo Antonio. Maria Giuseppa Amalfitani, nata nel 1797, era figlia del marchese di Crucoli, Don Nicola, e della sua 2^ moglie, Maria Gaetana Dolci, poi sposa di Carlo Francesco. Sua nonna, Maria Anna Pescara, madre di Don Nicola, era sorella di Vincenzo Antonio. Maria Giuseppa comprò, dai creditori di Carlo Francesco, le stanze confinanti per annetterle alla sua ripartizione. Lo stesso cercò di fare con il Cavaliere Giuseppe, senza riuscirvi. All’accesso ai giardini, i Taranto aggiunsero un altro ingresso, sull’attuale via Roma e da qui nacquero i primi contrasti sul passaggio dal cortile. Il Cavaliere Giuseppe Pescara vendè, nel 1849, palazzo S.Onofrio, con annesso giardinetto di San Domenico, all’avvocato e deputato del Regno di Napoli Giovanni Salerno. Non si sa se questi vi abbia mai abitato, poiché risiedeva a Napoli, ove aveva studio legale. E’ con questa vendita che i Pescara uscirono definitivamente di scena da Castelluccio. La situazione del palazzo, intorno al 1852, come si rileva nel libro “Il Regno delle Due Sicilie descritto ed illustrato” di F.Cirelli – nella parte curata dal castelluccese Gaetano Arcieri – era la seguente: “Il palazzo marchesale era magnifico. Decorato di due piani, di figura rettangolare, è tuttavia, malgrado le degradazioni, ancor bello. Vi alloggiavano nella occupazione militare fino a 300 francesi. E’ tuttavia il primo edificio del paese. Ampie le sale, belle le stanze, vasto il cortile, spaziosa la gradinata. Eravi un’alta torre al mezzo giorno ed occidente, nido di colombi. La fronte orientale domina il largo della chiesa, la nordica la piazza, e l’occidua sporge sul giardino sottoposto ai marchesali appartamenti, a vista del monistero dei Padri Osservanti. Rimarchevole per ampiezza, per ornati, e dipinti storici tratti da Tito Livio sulle magnifiche gesta dei Romani era la così detta sala di S.Onofrio, poiché ad essa adiacente era la cappella a questo santo dedicata, la quale, abbenchè squallida, presenta ancora un effigie dell’antica grandezza. Rimpetto al palazzo ad oriente era il bello e grande teatro”, poi: “Uno dei quarti forma ora la caserma di Gendarmeria, l’altro è addetto a pubblica locanda. Un terzo col quarto superiore è occupato dagli eredi Taranto, e tutto il rimanente è acquisto del signor D. Giovanni Salerno”, infine, descrivendo i giardini e la Cappella dei Sette Dolori (Vigna della Corte), prosegue:”All’occidua parte dell’abitato (del paese), e poco discosto dal Monistero dè Minori Osservanti è questa cappella di patronato gentilizio dè Marchesi, i quali avean colà uno specioso latifondo con superba casina, innanti la quale sta disposta.Aveanvi un ampia strada guarnita da folte parallele di alti pioppi, che nascendo dal di loro palagio e cavalcando il fiume S.Giovanni, andavano in linea retta a rompersi innant’il detto casamento. Al cui termine era un luogo di riposo con tavola, sedili e colonnati di fabbrica vagamente ombreggiati, e dall’altro lato una grande piscina abitata da anguille e capitoni. Ora le delizie marchesali essendo cadute con la baronal potenza, né la strada, né il luogo di ricreazione è più riconoscibile: soltanto la piscina esiste, ma molto degradata; così pure il casamento. Tutto è venduto, ma è consolante che gli acquirenti sentono la voce interna della Religione, mantenendo la cappella dell’Addolorata aperta al pubblico culto”. E’ evidente quindi che la parte del palazzo che era stata destinata a Carlo Francesco, pegno dei suoi creditori, fu adibita, dopo altri probabili passaggi di mano, a “pubblica locanda” e “caserma di Gendarmeria”, forse con altri ingressi. Ma nel 1865 un nuovo proprietario, acquistando stanze e locali, ristrutturò gran parte dell’ala Nord, che fu detta “palazzo nuovo” ( o Brandi), realizzando un altro ingresso indipendente con elegante portale in pietra. Poco dopo, alla ripartizione dei Taranto-Amalfitani – che conservava le memorie storiche dei Pescara, gli arredamenti originali e una galleria di ritratti – fu aggiunta la palazzina su via Roma, che fiancheggia anche vico Santa Veneranda, e la bella scala con balaustrini. Sul portale, realizzato qualche tempo dopo in marmo grigio, fu posto lo stemma dei Gioia, che è lo stesso della loro antica residenza di via Giardini. Per entrambe le costruzioni fu utilizzato anche il cosiddetto “larghetto marchesale”. La residenza dell’amministratore, il medico D. Francesco Saverio Taranto, era il palazzetto di via Giardini, dove andò ad abitare dopo il suo matrimonio con Maria Teresa Gioia. I coniugi Taranto/Amalfitani continuarono a mantenere la proprietà di via Giardini (e così i loro discendenti), pur abitando nel palazzo marchesale con i numerosi figli. Solo una di questi avrà successori, Luisa Maria Vittoria, che sposò il notaio Nicola Maria Gioia, forse un cugino, ed ereditò dalla madre e dai fratelli, il suddetto comparto del palazzo con il pur vasto giardino sottostante, quello che era rimasto dopo il frazionamento. Quindi a quest’ultima subentrarono i figli: Luigi – sacerdote, Antonio – medico a Napoli, poi rientrato a Castelluccio, Ignazio – vescovo a Recife, in Brasile, Concetta e Amalia, entrambe nubili. Dopo la morte dell’ultimo proprietario, il medico D. Antonio Gioia, avvenuta negli anni ’50 del secolo scorso, l’unico erede, un nipote residente in Brasile, vendette tutto il comparto, frazionandolo tra più famiglie. Gli arredamenti originali, le collezioni d’arte – arricchite anche dai Taranto e dai Gioia, e la galleria di ritratti, erano già stati alienati anni prima andando dispersi e facendo la fortuna di vari antiquari. L’azione legale dei Taranto contro Vincenzo Antonio, la divisione della parte rimasta del palazzo fra i due fratelli, l’appropriazione da parte dei creditori di Carlo Francesco, delle sale e dei grandiosi saloni con la conseguente divisione degli stessi, stravolgendone il percorso originario e cambiandone l’uso nobile cui erano stati destinati, portarono l’edificio, che in senso unitario aveva per secoli rappresentato la “baronal potenza”, ad un rapido declino. Il palazzo era stato concepito come residenza aristocratica e non solo le sale, ma ogni ambiente aveva una sua funzione specifica, un suo nome proprio, un suo valore rappresentativo e tutti facevano parte di un itinerario bruscamente interrotto dalle spartizioni senza senso, solo adatte alle esigenze dei nuovi proprietari. Per un palazzo feudale di provincia i cambiamenti derivanti dall’abolizione del maggiorasco e dal conseguente frazionamento delle proprietà fondiarie, dovevano essere traumatici, non così per i palazzi nobiliari cittadini. La parte del palazzo detta di Sant’Onofrio, fu venduta nel 1865 dal Salerno ad un suo lontano parente, Giovanni Bevilacqua (1815-1880) – commerciante. Il Bevilacqua rappresentava il nuovo ceto sociale in ascesa e aveva sposato nel 1846 Maria Giovanna Roberti (1824-1890), figlia di Don Pietro – proprietario terriero – e di Donna Maria Teresa Pennella. L’acquirente pagò il prezzo pattuito in due rate, una al momento dell’acquisto e l’altro nello studio legale dell’avvocato Salerno, a Napoli. I contrasti tra i Bevilacqua e i Taranto/Amalfitani – e poi Gioia – sul diritto di passaggio dal cortile, nati già con il Cavaliere Giuseppe e proseguiti con il Salerno, si acuirono enormemente, portando in seguito anche alla demolizione della scala che metteva in comunicazione il cortile con la loro proprietà. Dopo la morte del Bevilacqua, nel 1880, si aprì una rabbiosa vertenza giudiziaria tra i suoi eredi e i successori del Salerno. La controversia era esasperante, fastidiosa e assunse carattere persecutorio; veniva riaperta ad intermittenza e si trascinò per ventisette anni. Gli eredi di Giovanni Salerno: la vedova – Elisa Ghio, il secondo marito di questa e nipote del Salerno – Giovanni Grisolia, anch’egli avvocato, la figlia minore, di cui era patrigno e tutore – Maria, furono contro i Bevilacqua, a cui contestavano le cose più incredibili, come la falsità del contratto di acquisto. Nel frattempo che la diatriba proseguiva negli anni, Maria Salerno raggiunse la maggiore età e si sposò con Don Sebastiano Pignatelli dei Duchi di Montecalvo, marchese di San Marco Lacatola, titolo che spettava ai secondogeniti della sua famiglia. Ma la principale vittima dell’inganno era l’avvocato Giuseppe Poderico di Napoli, verso cui il Grisolia aveva debiti di gioco. Erano tutti alleati a danno dei Bevilacqua, che alla fine vinsero la causa con una sentenza della Corte di Cassazione in Napoli dell’8 giugno 1907, ma per altri versi ne uscirono sconfitti; in quel lasso di tempo, avevano comunque continuato ad abitare nel palazzo, considerandolo proprio. I reali artefici di questo dissidio, come si scoprì poi, a causa dei dissapori sui diritti del cortile, erano i due fratelli, Giovanni e Cesare Taranto, figli di Luigi Antonio e di Maria Giuseppa Amalfitani di Crucoli, forti della classe sociale a cui appartenevano. Giovanni Bevilacqua – mio trisavolo – aveva adibito i locali a piano terra, corrispondenti largo San Nicola – allora “del Plebiscito”, a spaccio di caffè che importava dal Brasile – da Vitòria, dove il figlio Gaetano era nel frattempo emigrato. I locali del cortile e le ex scuderie furono destinati a locanda con cambio di cavalli, specie per i trainanti che attraversavano la statale 19 delle Calabrie, fino ai primi del Novecento, tanto che il cortile veniva chiamato (oltre che “cortile dei Bevilacqua”), “la taverna” , nome che nel lessico locale è tutt’ora rimasto. Il palazzo S.Onofrio ebbe ulteriori divisioni fra gli eredi dei Bevilacqua, divenendo a sua volta un condominio tra persone non più legate da stretti vincoli di parentela, sino a quando subentrarono nuovi acquirenti del tutto estranei, tuttavia i discendenti di Giovanni Bevilacqua ne sono ancora oggi proprietari di una una parte rilevante. Nonostante le manomissioni e gli usi impropri, il Palazzo Marchesale conserva ancora un certo fascino, oltre a pregevoli decorazioni di epoca barocca. Della facciata principale, oltre al portale con lo stemma, rimane oggi anche il balcone di ordine catalano, con i basamenti in pietra “reciprocamente sporgenti”. Il grande portone fu sfondato durante l’ultima Guerra Mondiale, con grave danno e il conseguente abbandono, ma nel 2006 è stato restaurato recuperando al massimo il materiale originale. L’intero immobile è stato sottoposto ai vincoli previsti dalla Legge n.1089 del 1° giugno 1939, con decreto del Ministero dei Beni Culturali del 17 aprile 1999. Nelle antiche descrizioni, il grande cortile del Palazzo Marchesale viene riferito grandioso e scenografico, così realmente doveva essere. Il visitatore, varcato il gran portone e l’androne d’ingresso, si trovava di fronte un elegante portico – che conduceva alle scuderie e al giardino – sul quale erano due loggiati sovrapposti – “la gran loggia”. Il loggiato al primo piano costituiva il vestibolo, a cui erano collegate due scale, “la gradinata”. Un altro loggiato, sempre nel cortile, era posto frontalmente a questi, al secondo piano, comunicante con altre logge sulla facciata principale esterna, sopra l’androne. Il loggiato del secondo piano, situato davanti a chi entrava nel cortile, aveva una funzione particolare, altamente celebrativa, dimostrata all’esterno, oltre che dall’elemento architettonico delle serliane – ripreso poi nella palazzina Pateras Pescara di via Giulia, a Roma – dalla singolare decorazione della facciata, dalle cui tracce rimaste si intuiva che gli elementi ornamentali includevano, com’era consuetudine, i volti degli imperatori romani. Al suo interno le pareti erano affrescate con decorazioni a motivi fogliacei e floreali, a guisa di albero, inserite in una banda di circa un metro di larghezza che correva per tutto il perimetro, poco sotto il soffitto. Da ogni viluppo vegetale usciva a intermittenza lo stemma dei Pescara, congiunto a quello del casato della sposa – se il personaggio era sposato – sotto corrispondeva un cartiglio con i nomi, le cariche e i titoli nobiliari. La serie dei nomi incominciava da Riccardo De Diano, proseguendo fino ai Marchesi di Castelluccio. Le date più remote erano sicuramente quelle di cui si aveva notizia dei personaggi, rilevate da antichi documenti o da tradizione orale, mentre per quanto riguarda le date che si riferiscono ai feudatari di Castelluccio si può ipotizzare che siano quelle dell’attribuzione del potere feudale di padre in figlio – forse al momento del pagamento del “relievo” – poichè venivano menzionati, in quella fase, solo i primogeniti investiti del titolo. E’ anche probabile che, fino al primo feudatario di Castelluccio, nell’avvicendamento dei nominativi non vi sia un rapporto diretto di padre in figlio, ma solo una citazione del personaggio. Certamente l’insieme doveva essere unito dai ritratti, idealizzati quelli più antichi e reali quelli più recenti. Un esempio simile a tale monumento celebrativo lo vediamo anche nei palazzi e nei castelli di altre famiglie nobili, specie nel Nord Italia: emblematico è quello della galleria degli stemmi del castello Masino, in Piemonte, ove nello stesso modo è illustrata tutta la discendenza diretta maschile. A mio parere, il committente di tale opera doveva essere sicuramente Carlo Francesco (1690-1761) – V marchese di Castelluccio – a giudicare dal periodo di realizzazione dell’opera – 1^ metà del Settecento. Egli, dopo un lungo e consolidato potere feudale della sua famiglia, così facendo ha voluto onorare la memoria dei suoi avi e trasmetterla ai posteri. Nell’iscrizione che riguardava lui e sua moglie si evidenziava un particolare fregio decorativo, che forse non era casuale e che la distingueva da tutte le altre. Dopo di lui non vi sono riferiti i nomi dei successori e non si comprende se era consuetudine annotarli quando erano o no in vita. Seguivano i cartigli già predisposti, ma vuoti e non vi compare neanche Vincenzo Antonio, che fu feudatario legittimo fino al 1806, e sua moglie Felicita Marulli. E’ certo che la galleria all’inizio dell’Ottocento faceva parte della ripartizione assegnata al Cavaliere Giuseppe, al quale forse non interessava aggiornarla. In corrispondenza del cartiglio vuoto, le decorazioni venivano cancellate per far posto allo stemma che, mentre per i Pescara era sempre lo stesso, per le loro mogli era diverso. La galleria, dopo di Giuseppe Pescara, passò al Salerno, poi al Bevilacqua e ai suoi discendenti. Nelle ulteriori divisioni e vendite che seguirono la galleria si trovò inclusa in una nuova abitazione i cui proprietari la mantennero quasi integra fino agli anni novanta, allorché, con mio grande rammarico, scrostarono i dipinti e ne ricavarono altre stanze. Tutti i miei sogni di infanzia e di adolescenza erano presi da questo spazio magico e affascinante, di cui oggi abbiamo solo una testimonianza fotografica. La “Galleria degli Stemmi”, come mi sembra giusto ed appropriato chiamarla, doveva essere nel Settecento e nell’Ottocento anche meta di visitatori – forse del “Grand Tour”- a giudicare dalle firme che potei vedere sulle pareti. Le epigrafi erano scritte in latino e, anche se molto concise e a primo impatto enigmatiche, insieme con gli emblemi araldici, raccontavano “La Storia”. Dalle iscrizioni si poteva osservare come i Pescara fossero legati alle più grandi famiglie del Regno di Napoli: D’Aquino, Correale, Brancaccio (Beatrice apparteneva alla linea detta “del Vescovo”), Della Porta, D’Afflitto, De Rogerio (oggi De Ruggiero), Sersale – principi di Castelfranco (oggi Castrolibero). Vi sono ricordati personaggi con cariche notevoli, tra cui due arcivescovi di Napoli (nella sacrestia del Duomo, ove sono i ritratti, sono riportati con il cognome Di Diana), Cavalieri di San Giacomo, Commendatori di Sant’Eufemia. Mi attirano soprattutto le personalità femminili. La prima moglie di Cesare Pescara era Proserpina D’Afflitto, ma nella genealogia della sua famiglia il suo nome viene riportato come “Prosperina” . Il committente della galleria non poteva non sapere il nome esatto della sua progenitrice, inoltre, mediante l’esecutore materiale di tale realizzazione, con un gioco di stemmi e di insegne araldiche, ci tramandava che la discendenza continuò, almeno per il primogenito ed erede del titolo, dalla prima moglie e non da Caterina De Rogerio. Seguiva Maddalena Longobardo – Signora di Teana, Francesca Pescara – della linea ducale di Saracena, per la quale ancora una volta sono gli stemmi che si manifestano se interpretati in modo giusto: era figlia di Vittoria Giffoni d’Aragona. Veniva poi Maria Sersale, il cui busto è esposto nella chiesa madre di Castelluccio, insieme a quello del marito. Mi ha sempre attratto il personaggio della Marchesa Barbara, il cui nome non si è più ripetuto nella discendenza. Barbara, figlia di Saverio Pascale e di Marianna Tauro, apparteneva a una nobile famiglia di Cosenza, e la madre era una valente poetessa e letterata del XVII sec., iscritta all’Accademia Cosentina. Sicuramente lei aveva composto la commovente iscrizione sulla tomba del marito, in Santa Maria delle Grazie, ai piedi dell’altare della Madonna di Costantinopoli concesso in giuspatronato. Si ricorda, dai discendenti, la presenza di Carlo Francesco e Barbara ad Episcopia nel gennaio del 1728, per il battesimo della primogenita dei marchesi Carlo Francesco Della Porta e Gabriella Vargas Machuca, Regale Elisabetta Giovanna. Dal Manoscritto Serra di Gerace, risulta che il matrimonio tra Barbara e Carlo Francesco sarebbe avvenuto nel 1708. Poiché nell’atto di morte nei registri parrocchiali di San Nicola, a Castelluccio, si rileva che Barbara è morta a 72 anni nel 1774, si evince che era nata nel 1702, quindi nel 1708 aveva soltanto 6 anni. I matrimoni nelle famiglie nobili di quel tempo venivano programmati dai genitori fin da quando i figli erano molto piccoli, ma che fosse addirittura celebrato sembra impossibile. Se così è stato, la sposa sarà rimasta con i genitori fino a raggiungere l’età ritenuta giusta per poter andare a vivere con il marito. D’altra parte, un’altra Barbara, la marchesa di Mantova, andò sposa a Ludovico Gonzaga all’età di 10 anni. – Barbara e Carlo Francesco ebbero 6 figli, mentre Vincenzo Antonio e Felicita Marulli ne ebbero 12. Qualcuna delle figlie femmine, di entrambe le coppie, furono monache nei più importanti conventi del tempo, a Napoli – alla Croce di Lucca – e a Salerno. Felicita – variante del terzo nome della nonna materna, Anna Maria Felicia Gritti – era figlia del conte di Barletta, Troiano Marulli, altra importante casata del Regno di Napoli. La madre, Morosina, proveniva dalla famiglia Thurn und Taxis. Il nome Morosina fu trasmesso, poi, a una figlia della suddetta coppia e lo troviamo per qualche tempo, con alcune variazioni, tra le esponenti delle famiglie notabili di Castelluccio. Tra le figlie di Vincenzo Antonio e Felicita Marulli, Maria Rachele e Maria Anna meritano una speciale considerazione. La prima sposò il cugino Don Gabriele Baffa Trasci Amalftitani dei Marchesi di Crucoli, ma morì di parto all’età di 27 anni, nel 1800. Don Gabriele era uno dei più convinti filo-borbonici della sua epoca e combattè da eroe nel celebre assedio di Amantea del 1806. L’altra sorella, Maria Anna, sposò in prime nozze il nob.Michele Gentile dei Conti di Lesina, da Barletta, da cui ebbe due figli, un maschio – Diego, che ereditò poi il titolo paterno – e una femmina. Rimasta vedova dopo poco tempo, si risposò con il nobile Antonio Raffaele Doria, figlio del Principe Giovan Stefano e di Maria Giuseppa Germano Doretti. Antonio Raffaele nacque l’11-6-1766 a Crotone, dove il padre era capitano dell’esercito borbonico e governatore della città, ma studiò a Napoli ove divenne uno degli uomini di maggior spicco della fine del Settecento. Partendo da Tenente di Vascello, durante la Repubblica Partenopea del 1799 si schierò contro i Borbone, ricoprendo la carica di Ministro della Marina e arrivando ad essere uno dei 25 Rappresentanti del Governo. Alla caduta della Repubblica Partenopea pagò con la vita la sua fede repubblicana il 7 dicembre 1799, a Napoli in piazza Mercato. Tutti i suoi beni furono confiscati e Maria Anna, vedova per la seconda volta, fu costretta ad affidare i quattro figlioletti nati dalla loro unione – Giovanni – Orazio – Andrea e Giuseppina, alle sorelle sposate: la sua fine è avvolta nel mistero; pare che fosse entrata in un convento e avesse preso i voti.

Fonti testi: http://palazzomarchesalecastelluccio.blogspot.com/ 

Fonti immagini: https://palazzosantonofrio.wordpress.com/

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